Il difficile percorso della pace in Medio Oriente
Da un lato il Medio Oriente è alla ricerca della tregua e della pace, dall’altro i fronti di guerra aumentano. La Striscia di Gaza è un campo di battaglia dove non si distinguono vincitori e vinti, e dove anzi tutti paiono perdere: Hamas, i palestinesi e pure Israele. La Siria è uno scacchiere su cui le grandi potenze, tra tutte Usa e Russia, continuano a restare schierate, muovendosi anche senza una chiara strategia e senza riuscire a chiudere la partita. E l’Iraq è di nuovo a rischio di una guerra interna.
A più di 12 anni dall’inizio delle prime proteste in Siria, il Paese resta travolto dal conflitto, il processo diplomatico bloccato in una fase di stallo a causa delle diverse agende straniere e interne in competizione e le prospettive di pace continuano ad essere ancora remote. Il conflitto non lascia intravedere all’orizzonte alcuna apertura diplomatica che possa avviare un processo di riconciliazione e ricostruzione nel Paese.
Il bilancio della guerra è ingente. Secondo l’ONU, più di 6 milioni sono gli sfollati interni e altri 6,8 milioni sono i rifugiati o i richiedenti asilo all’estero. Ad oggi, 14,6 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria e di protezione, tra cui mezzo milione di bambini affetti da malnutrizione cronica. Quasi il 60% della popolazione è afflitta da insicurezza alimentare e oltre la metà dei bambini non ha accesso all’istruzione, con la pandemia di Covid-19 che ha ulteriormente peggiorato una già terribile emergenza umanitaria.
Le autorità di Damasco hanno consolidato le loro conquiste territoriali, ma restano prive dei mezzi necessari a garantire sicurezza, ricostruzione e sviluppo nei territori sotto il loro controllo, mentre nelle aree periferiche, lungo il confine settentrionale con la Turchia e nella Siria Nord-orientale continuano i combattimenti con gravi difficoltà quotidiane e tensioni militari tra le molteplici forze coinvolte.
Nel frattempo lo Stato Islamico ha ripreso le proprie attività nelle aree desertiche e periferiche non soltanto in Siria ma anche in Iraq, mettendo ulteriormente in pericolo i precari equilibri securitari dentro e fuori i confini siriani.
Ad agosto scorso, ad un anno di distanza, è tornata la guerra nella Striscia di Gaza. Lo scorso anno, la scintilla che fece esplodere il conflitto fu più politica, legata agli sgomberi forzati di palestinesi da Gerusalemme est, che portarono a scontri anche sulla Spianata delle Moschee. Questa volta invece l’escalation militare ha avuto altra origine: l’obiettivo dell’esercito israeliano, non è stato il gruppo che governa la Striscia e che molti considerano terrorista, Hamas, ma un suo sodale, la Jihad Islamica.
Nella notte fra l’1 e il 2 agosto, l’esercito israeliano ha arrestato a Jenin, in Cisgiordania, Bassam al-Saadi, comandante della Jihad Islamica in Palestina. Jenin è la città cisgiordana da sempre una spina nel fianco per Israele. Da qui, infatti, provengono la maggior parte dei responsabili degli attentati che, nei mesi scorsi, in undici giorni hanno ucciso 14 persone in Israele. In risposta l’esercito ha organizzato numerose azioni in Cisgiordania contro terroristi, fiancheggiatori e presunti tali, che hanno fatto una trentina di vittime. A ordinare alcuni di questi attacchi contro le città israeliane, eclatante quello nel centro di Tel Aviv, secondo gli israeliani proprio Bassam al Saadi.
Tre giorni di combattimenti contro gli undici dello scorso anno, che hanno segnato per Israele una vittoria militare, ma che hanno comunque lasciato la scia di morte soprattutto tra i civili della Striscia. Una cosa è chiara: i tre attori in campo hanno tutti ottenuto una vittoria che potranno spendere ai fini della propaganda, necessaria ad affrontare i prossimi mesi.
In Iraq le forze dell’imam Moqtada al Sadr e quella dell’alleanza sostenuta dall’Iran si contendono il controllo del Governo. La crisi iniziata con le elezioni dell’ottobre 2021, che ha visto una vittoria del partito sadrista, sono sfociate ora in scontri tra le forze di sicurezza irachene e i sostenitori dell’imam che da anni si batte contro la corruzione nel Paese.
Sono almeno 27 morti e oltre 300 feriti il bilancio parziale degli scontri tra le forze di sicurezza irachene e i sostenitori del leader politico e religioso sciita, al Sadr, iniziati alla fine di agosto nella capitale dell’Iraq, Baghdad, e che si sono estesi anche ad altre zone del Paese tra cui Nassiriya, Bassora, e Kirkuk.
L’attuale battaglia tra le forze sciite, in buona parte sostenute dall’Iran, potrebbe portare la sicurezza nazionale irachena nel baratro e a una guerra di strada e lasciare alle spalle conseguenze non prevedibili. Gli scontri tra sciiti potrebbero, secondo analisti iracheni, portare a bruciare il Paese e sconvolgere la vita sociale, politica ed economica.
Le ragioni di questa situazione vanno ricercate, appunto, nel più lungo stallo politico nel quale si trova l’Iraq ad un anno e mezzo dalle elezioni. I principali partiti iracheni non sono riusciti a giungere a un accordo sulla nomina della prima carica dello Stato e sulla formazione di un nuovo esecutivo. Per di più, le aperte rivalità all’interno del campo sciita hanno portato a una definitiva impasse e sono sfociati in aperti attacchi alle istituzioni e scontri nel cuore di Baghdad. In questo contesto, l’attuale governo ad interim del primo ministro Mustafa al-Kadhimi fatica a mantenere l’ordine e a garantire che le controversie politiche siano trattate all’interno dei binari istituzionali. L’acuirsi della crisi politica ha impedito a Baghdad di avviare le riforme delle quali il Paese ha bisogno, oltre ad accrescere le preoccupazioni a livello regionale e internazionale sulla sua effettiva stabilità.
In Libano l’élite politica, assieme al sistema istituzionale che la sorregge, si confronta con una crisi di legittimità che, seppur con precedenti nella storia del Libano indipendente, non ha mai raggiunto una tale magnitudine. Nel 2019, con l’esplosione della crisi finanziaria, la popolazione libanese si mobilitò in un movimento di protesta che chiese a gran voce la dimissione dell’intera classe politica. Negli anni a seguire, la crisi finanziaria è solo deteriorata, intaccando profondamente l’economia reale: il Libano ha un debito pubblico del 135% del Pil, la lira libanese in 3 anni si è svalutata di circa il 90% rispetto al dollaro. Un dato che, combinato con l’iperinflazione galoppante, ha generato una crisi sociale che non trova paralleli neppure nel periodo della guerra civile: circa l’82% della popolazione libanese vive oggi sotto la soglia di povertà.
Il nuovo Primo Ministro, nominato dopo le elezioni, è non a caso un volto vecchio dell’élite, il miliardario Najib Mikati, è investito del compito di raggiungere un accordo con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per la rinegoziazione dell’insostenibile debito pubblico.
Sebbene la società libanese abbia un forte desiderio di sostituire il sistema confessionale, che è alla base del governo politico del Paese, un sondaggio dell’Arab Barometer del 2021 mostra che solo il 10% della popolazione libanese vorrebbe mantenere il sistema così com’è, a fronte di un 56% a favore di un sistema civile o secolare. Tuttavia, il 47% della popolazione si dice contrario alla possibilità di aprire a tutti i cittadini le posizioni istituzionali storicamente assegnate in base all’appartenenza religiosa. Pur desiderando un sistema secolare, ogni gruppo confessionale teme che, nella transizione, altri gruppi confessionali possano accaparrarsi le proprie prerogative istituzionali.
La dialettica interna all’élite politica libanese oggi riflette questa dinamica. Il dibattito è ancora una volta focalizzato sulla legittimità delle armi di Hezbollah, dividendo il sistema politico e la società attorno a due grandi narrazioni: la prima vede Hezbollah come parte integrante del sistema politico e sociale del Libano; la seconda lo vede come un “invasore” illegittimo.
Il sondaggio indica come la mancanza di fiducia tra gruppi confessionali sia paradossalmente un deterrente del cambiamento del sistema confessionale stesso. Questa percezione collettiva è quotidianamente alimentata dall’antagonismo tra élite politiche che spesso si articola come un gioco a somma zero.
D’altro canto, in Turchia spirano venti di pace e tentativi di conciliazione. Che si tratti di Ucraina, per la quale il presidente Recep Tayyip Erdogan ha proposto il ritiro delle truppe russe e la restituzione dei territori occupati, Crimea inclusa, o si parli di Siria, con la proposta del Ministro degli Affari Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, di avviare dei colloqui tra il Governo di Bashar al-Assad e l’opposizione filo-turca, da Ankara si chiede un cambio di passo, bisognosa di stabilità nel complicato gioco degli equilibri regionali e di frenare le turbolenze economiche che stanno mettendo a dura prova il Governo del Presidente turco. L’appuntamento delle elezioni della primavera 2023 si avvicina e la maggioranza si trova in difficoltà su diversi fronti.
Nei rapporti con la Siria, tra i nodi da sciogliere, restano la questione dei curdi e dei rifugiati siriani. Per Ankara, l’annullamento dell’autogoverno de facto dei curdi a Nord della Siria rappresenta una conditio sine qua non per la riconciliazione dei rapporti con Damasco. Pesano poi altrettanto, se non di più, i 3,7 milioni di rifugiati siriani che Erdogan preme per rimandare a casa, facendo leva sul comune sentire della popolazione turca, affatto favorevole all’integrazione dei rifugiati stessi. “Mandiamo a casa i siriani” è uno degli slogan più diffuso al momento in Turchia, dove gli episodi di razzismo sono sempre più frequenti.