Per un 2023 di pace
Proposta di percorso: guardate il film ‘Le nuotatrici’; leggete questo articolo; guardate il video al collegamento linkato nel testo
Se c’è una cosa sicura è che nessuno potrà salvarsi da solo.
È questo il senso del messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale della Pace, in un mondo che è andato ormai oltre la guerra mondiale a pezzetti, per configurarsi ormai come una guerra mondiale aperta e conclamata. Affinché il 2023 sia un anno di pace abbiamo bisogno di costruirla insieme. Tuttavia, la generazione della quale facciamo parte, nel Paese nel quale viviamo, ha perso la memoria del rischio – sempre presente – di trovarsi in una condizione di conflitto, nel quale si sia coinvolti direttamente, e di perdere una pace che, superficialmente, consideriamo contesto scontato delle nostre esistenze.
La maggior parte di noi si trova – fortunatamente – lontano da una situazione di scontro aperto e violento. È forse proprio per questo siamo nella condizione di guardare con sufficienza chi si trova a scappare da guerre e conflitti, arrogandoci la responsabilità di distinguere chi scappa ‘proprio’ solo da una guerra oppure da un da una “situazione di guerra” con condizioni di vita ormai insostenibili, magari a causa del cambiamento del clima.
In un mondo che sempre più ribolle vorremmo poter chiudere i confini e proiettiamo il nostro desiderio di non essere coinvolti dagli effetti di quel ribollire; con l’idea che ‘se fossi io a trovarmi in una situazione del genere, rimarrei lì a lottare per la libertà’
Da questo modo di argomentare l’assenza completa dell’esperienza del conflitto, ed un certo grado di traslazione delle proprie priorità politiche sulla vita e sulla carne di altre donne e uomini, che non con meno diritto e dignità della nostra, popolano questo Pianeta.
Il recente film di Sally El Hosaini ‘Le nuotatrici’ (2022) ci offre la possibilità di una esperienza emotiva preziosa, attraverso la storia, vera e disturbante, di Yusra e Sarah Mardini, nuotatrici siriane in fuga dalla guerra. Una esistenza normale in una città normale come Damasco: a questa normalità si aggrappano quasi rifiutando di vedere la pace sgretolarsi attorno a loro, fino quando – forse – non è troppo tardi. Quanto è alto e spericolato il salto da fare? Da una vita normale fatta di studio, di allenamenti, di feste in discoteca; a un vortice che inizia con i posti di blocco, con i controlli sfrontati e insultanti dei soldati che dovrebbero proteggerti, con gli spari verso l’autobus su cui viaggiano e che – paradossalmente – consentono loro di evitare guai peggiori; alla decisione di un salto nel vuoto, al pericolo costante, alla morte vista in faccia. Ma non è ancora, per fortuna, tardi per le protagoniste della storia: la bomba inesplosa di fronte a loro segna il punto della presa di coscienza per un tentativo disperato e incerto.
Siriani e non, anche una madre con una bimba il cui padre ‘non è una brava persona’, una ‘migrante economica’ che dovrebbe ‘pretendere che altri paesi aiutino a rimanere sulla sua terra’ e che le nostre leggi vedrebbero immediatamente rimpatriata: niente altro che una squilibrata che mette a repentaglio la vita di sua figlia? Un altro effetto collaterale della pace che si frantuma attorno a noi?
E sono le parole di Yusra e Sara sul barcone ad essere la migliore chiosa alle parole di Papa Francesco: siamo insieme, e ognuno di noi che sa nuotare ha il dovere di prendersi cura di uno che non lo sa fare. Parole razionali? O completamente assurde in un momento in cui il motore si sta fermando e il gommone, evidentemente troppo pieno, sta andando a fondo? Se ci pensiamo l’amore e la cura reciproca attraverso la quale possiamo salvarci insieme hanno davvero un tratto di assoluta assurdità e irragionevolezza. ‘
Purtroppo non li possiamo accogliere tutti’ sono parole dalle quali cogliamo invece il senso e l’assennatezza; che tradotte nel ‘linguaggio del barcone’ implicherebbe scegliere chi buttare in mare oppure accettare la scelta implicita della sorte, dato che sono comunque i più deboli i primi a cadere fuori bordo. E invece – con un tratto di assurdità e irragionevolezza – sono le ragazze che decidono di buttarsi fuori bordo, poiché sanno nuotare.
Non è una esperienza ‘straordinaria’ quella delle protagoniste: centinaia di migliaia di persone l’hanno fatta, molte di queste non possono più raccontarlo a nessuno. Naturalmente ammettendo che qualcuno sia interessato a questo racconto, dato che viviamo un po’ tutti come sulla spiaggia di Lesbos, facendoci il bagno e prendendo il sole a pochi metri da una umanità lacerata e violentata.
Come i bagnanti di Lesbos – non capiamo – non sentiamo, non guardiamo – cosa sta accadendo intorno a noi: i migranti, che passano sotto le nostre finestre a chiedere un bicchiere d’acqua; le guerre che si combattono spesso in nostro nome e con le nostre armi lontano dai nostri occhi e dal nostro cuore; le ingiustizie che si perpetrano quotidianamente in un sistema globale del quale noi – certo non per colpa nostra! – siamo i beneficiari finali.
E non per cattiveria o con cattiveria, rappresentiamo con pacatezza e con un sorriso le ragionevoli ragioni della nostra ‘fortezza Europa’, prima che una bomba cada nel nostro giardino di casa.
L’imbarazzo rispetto ad una realtà che non vogliamo vedere, lascia presto il campo ad un giudizio senza appello nei riguardi di chi sceglie di non girarsi dall’altra parte: aiutare va bene, ma non troppo e, soprattutto, senza fare domande scomode.
Ed è così che la più grande tra le due sorelle siriane protagoniste del film, Sarah Mardini, è tornata a Lesbos per impegnarsi direttamente in favore di chi ha tentato di superare il braccio di mare che separa la Turchia dalla Grecia, come lei stessa aveva fatto con la sorella Yusra pochi anni prima. Arrestata, è attualmente in attesa di un processo dove rischia 25 anni di carcere per traffico di esseri umani; un processo che – secondo molte organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani – ha tutte le caratteristiche di un processo politico.
Quando il Papa ribadisce che per la pace non è stato ancora trovato un vaccino come lo quello realizzato contro il COVID-19, dobbiamo comprendere cosa questo significhi con le parole di due profughe siriane, che per una commistione di coraggio, fortuna e senso di umanità non si trovano in fondo al mare, come molti altri.
Le vicende della Siria, come quelle dell’Ucraina e di molti altri luoghi del Pianeta, continuano a mettere in questione la nostra idea di pace: un’idea spesso cieca rispetto a quanto avviene proprio accanto a noi. E ci chiede con ancora più forza di compiere ogni giorno la scelta di costruire una pace davvero giusta. Una pace che non guarda altrove, e che si assume la responsabilità di vivere il tempo in cui siamo.
Una pace per tutte e tutti.