Sud Sudan – Piccoli passi tra le diverse emergenze, è il tempo di proseguire sulla strada tracciata
di Nicoletta Sabbetti – Caritas Italiana
La popolazione del Sud Sudan ha dolorosamente raggiunto la sua Indipendenza il 9 luglio 2011, prima dall’impero britannico e, poi, dopo aver impiegato ogni possibile sforzo in una guerra lunga oltre due decenni per smarcarsi dal Sudan. Il risultato fu un immediato entusiasmo teso alla possibile e voluta rinascita, anche per la grande ricchezza del sottosuolo, ma il conto da pagare è stato salatissimo: un Paese senza infrastrutture vitali quali, ad esempio, strade, ospedali, scuole; un alto livello di analfabetismo; centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati; moltissime vittime e i sopravvissuti in condizioni di estrema povertà e con pochi mezzi e conoscenze.
Dopo circa due anni di vicende alterne e di speranza per una possibile pace, nel 2013, il Paese è piombato in una altrettanto sanguinosa guerra civile. Le differenze e le instabilità che hanno continuato ad alimentarle, se prima messe da parte per l’obiettivo comune di raggiungere la indipendenza dal Sudan, sono riesplose sanguinosamente.
Nel settembre 2018, le due principali parti in conflitto hanno raggiunto un accordo, dopo vari tentativi disattesi e fallimentari. Il processo di pace ha subito fase alterne sino all’accordo di Roma di gennaio 2020, conflitti e violenze pur diminuite non si sono mai fermate e alta è l’insicurezza a causa della diffusione delle armi, di milizie che operano incontrollate, di conflitti a livello locale, di dispute di confine e di raid di bestiame.
Il cammino è ancora lungo, l’obiettivo pare lontano. Per raggiungerlo, alcune tappe sono oggi fondamentali: formazione e riconciliazione a livello politico, militare e comunitario; trasparenza nella gestione delle risorse naturali e lotta alla corruzione; smilitarizzazione delle aree civili e una raccolta delle armi pesanti a corto, medio e lungo raggio per un disarmo reale, come previsto dagli accordi di pace già firmati; coinvolgimento della comunità per un approccio partecipativo alla pace, dando priorità a giovani e donne come attori di cambiamento. Il piano pluriennale per completare il processo di pace è tuttora in stallo, il periodo delle elezioni si avvicina sulla carta, ma rimane altamente incerto nella pratica.
Il Paese oggi è ancora vulnerabile, continuano a mancare le infrastrutture e i servizi che, poi, con la pandemia, si sono rivelati ancora più necessari e le condizioni di vita della popolazione rimane critica.
Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA), su 13 milioni di abitanti, le persone in bisogno di assistenza si aggirano intorno ai 7,5 milioni e le previsioni per 2021 stimano che si arriverà a 8.3 milioni; quasi 1,6 milioni sono attualmente gli sfollati interni (dicembre 2020). A questo si aggiunge una crisi climatica ormai cronica che ostacola ulteriormente le attività agricole e la sicurezza alimentare.
Dal 2019 a oggi frequenti inondazioni hanno colpito alcune regioni del Paese coinvolgendo circa 700.000 persone, rendendo la situazione ancora più insicura per il malcontento generale che va ad alimentare nuovi episodi di violenza sulle persone, i beni e le già povere strutture. Le previsioni dicono che tra dicembre 2020 e marzo 2021 saranno 5,8 milioni di persone in grave insicurezza alimentare.
L’emergenza legata al COVID -19 e le misure di confinamento hanno rallentato le operazioni umanitarie e acuito ulteriormente la crisi alimentare, in un Paese provato da anni di conflitto. Da qualche settimana, pur rimanendo più basso il numero dei contagi rispetto ad altre regioni del mondo, è stato imposto un nuovo lockdown. Legato, soprattutto, all’evidenza che i contagi ormai viaggiano velocemente a livello comunitario, fattore che negli scorsi mesi era stato quasi escluso.
Per la complessità e l’ampiezza dei bisogni della popolazione è necessario più che altrove un approccio fortemente sinergico e coerente tra le diverse componenti dell’aiuto esterno e delle politiche interne e internazionali, garantendo una significativa ed efficace risposta umanitaria combinata con una sempre maggiore centralità delle comunità locali per favorire la sostenibilità a livello familiare.
In questa complessa matassa, Caritas Sud Sudan sta giocando un ruolo importante per tirare le fila e coordinare una risposta alle molteplici emergenze in tutte le sette diocesi del Paese. Fondamentali sono sia il supporto istituzionale ed economico dai tanti partner, che la accompagnano da anni, sia la partecipazione delle comunità, che non vogliono e non possono essere solo beneficiari. Così come ci racconta il Direttore dell’Ufficio nazionale nella Capitale Juba, Gabriel Yai.
Caritas Sud Sudan, con la quale Caritas Italiana collabora da anni, è attualmente impegnata a coordinare un programma triennale di risposta multi-settoriale, per sostenere gli sfollati interni e le famiglie vulnerabili. Da poco entrati nella terza annualità, l’obiettivo è quello di sostenere tutte le Diocesi in attività che vanno dalla promozione per la riconciliazione e ricostruzione sociale, promuovendo iniziative formative e momenti di incontro tra comunità appartenenti a gruppi etnici diversi all’avvio di percorsi di riabilitazione dal trauma in molti villaggi colpiti dalla guerra civile.
Fondamentale il supporto per l’avvio di piccole attività generatrici di reddito, soprattutto con la distribuzione di attrezzi agricoli e sementi, la creazione di orti e alcune fattorie dimostrative.
Gabriel ci ricorda che fino all’ultimo si sperava di poter pian piano ridurre le attività di prima emergenza come la distribuzione di prodotti alimentari e beni di prima necessità, confidando in un generale miglioramento delle condizioni del contesto.
Purtroppo non è così e, soprattutto in alcune zone, queste attività sono ancora strettamente necessarie data la costante insicurezza e gli effetti combinati di quello che gli esperti hanno definito il “triplo shock del 2020”: una combinazione tra violenze che sono scoppiate nuovamente sia su scala nazionale che per le dispute violente tra i diversi allevatori di bestiame; per gli effetti generali della pandemia a livello sanitario ed economico e, infine, per la ciclicità con le quali le alluvioni danneggiano alcune regioni sud-sudanesi.
Nonostante gli immensi bisogni e il piano già in atto, per una risposta su più ambiti di intervento, in più occasioni il Direttore ci ha evidenziato come le attività legate all’avvio di piccole attività generatrici di reddito e ad una formazione specifica in tal senso, in particolare in ambito agricolo, sono una sfida molto importante.
“Pur operando in un contesto emergenziale, è quella componente che ci permette di lavorare con le comunità, offrendo una visione di respiro più lungo, costruendo insieme delle capacità sul territorio per una futura sostenibilità.”
Infatti, alcuni progetti pilota negli ultimi due anni in alcune Diocesi hanno dato risultati incoraggianti sia tra gli operatori che tra i beneficiari, che oggi vendono piccole quantità dei prodotti degli orti comunitari nei modesti mercati locali.
“È difficile lavorare in agricoltura anche per le condizioni climatiche, ma non dappertutto. Vorremo percorrere questa strada per non dover solo pensare a rispondere alle emergenze nell’immediato, vogliamo che la comunità sia attiva e coltivi una speranza. Sono solo piccoli passi, ma è tempo di proseguire sulla strada tracciata”.