Donne, le grandi assenti ai tavoli della pace
C’era una volta la mia vita
C’era una volta la mia casa
C’era una volta e voglio che sia ancora.
Così cantavano Jovanotti, Pelù e Ligabue ne “Il mio nome è mai più”. Semplici frasi, quasi iconiche, di inizio Millennio contro l’assurdità della guerra. Contro la follia di tutte le guerre dove a pagare un prezzo altissimo sono i civili; soprattutto donne e bambini costretti a lasciare le proprie terre e le storie personali a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani. Costretti, troppo spesso, a perdere anche la propria vita. E le guerre che senza soluzione di continuità infiammano da decenni il Medio Oriente, non rappresentano certo l’eccezione a conferma della regola.
Siamo a novembre, mese nel quale si ricorda la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, una violenza che si manifesta specialmente in situazioni di conflitto. Se è vero che le donne nei contesti bellici diventano facilmente vittime, schiavizzate, violentate da una guerra che non hanno scelto – perché sono gli uomini a desiderare, alimentare, pianificare la guerra – le donne non sono “solo” questo. Sono anche combattenti con il kalashnikov in spalla, fra la polvere delle trincee o attiviste armate di parole per difendere gli ideali e i diritti del loro popolo. Sono donne alla guida di famiglie che occupano quei vuoti sociali e lavorativi, lasciati dagli uomini. Andati a combattere.
Questo il triplice ruolo delle donne in guerra: una parola quest’ultima, che nella sua etimologia originaria, germanica, vuol dire “mischia”. E se nella mischia le regole si annullano, alle donne che vivono in luoghi di conflitto, rimane il difficile compito di riportare ordine in società dove regna il caos.
Eppure quello che le donne si impegnano a costruire è un ordine temporaneo, proporzionale alla durata della guerra; una fase di sospensione dei vincoli sociali, caratterizzata dal sovvertimento degli ordini di potere che quasi richiama un Carnevale, ma tragico: se nella festa medioevale ai poveri era concesso vestire i panni dei nobili, prendendosi gioco del potere, alle donne viene concesso di occupare i posti degli uomini, sostituendoli in attività prima loro precluse. Tuttavia, si tratta di un’apertura di breve durata: alle fine del conflitto armato le donne vengono generalmente ricacciate tra le mura domestiche, spesso con maggior recrudescenza rispetto alla situazione prebellica.
Il cammino delle donne in Medio Oriente è lungo e disseminato di ostacoli, fatti della stessa sostanza di un patriarcato duro a morire, che si nasconde, non solo, dietro i precetti della religione islamica, come raccontano le attuali proteste in Iran; ma anche alle spalle di quei sistemi politici del mondo arabo proverbialmente più aperti al femminile, come nel caso del Libano.
Ci sono ostacoli rappresentati al tempo stesso, anche da guerre sanguinose come in Siria e da conflitti a tempo indeterminato come nei territori della West Bank, che riportano conseguenze devastanti su donne e bambini, principali vittime di guerre non scelte.
Essere donna in Libano
Nella Terra dei Cedri la notte è ancora nera, lontana dall’alba. Il Paese, attualmente senza un Governo, è vittima di una delle peggiori crisi economiche della storia: lo Stato è in pieno default, la lira libanese ha perso oltre il 90% del suo valore, la povertà soffoca circa l’80% della popolazione mentre i depositi dei libanesi sono bloccati nelle banche. Dall’ottobre del 2019 è iniziata un’ondata di proteste diretta contro la corruzione del ceto politico libanese e il suo sistema, rimasto praticamente invariato dai tempi della guerra civile che ha devastato la Nazione per quindici anni, dal 1975 al 1990.
Migliaia di donne sono scese in piazza per reclamare i loro diritti, nascosti agli occhi del mondo dietro la patina dorato del Libano, la cosiddetta Svizzera del Medio Oriente: le libanesi non possono, infatti, dare la loro cittadinanza ai figli se il padre è straniero e l’assenza di un diritto di famiglia nazionale le sottopone alle varie leggi religiose per matrimonio, divorzio, diritti nei confronti dei figli e altri aspetti della vita privata. Hanno, tuttavia, ottenuto che, per la prima volta, l’inno nazionale venisse cantato in piazza parlando del loro Paese come patria di “uomini e donne”, non solo di uomini. Tuttavia, questo alle donne della Terra dei Cedri ovviamente non basta: continuano a scendere in piazza dove chiedono con forza una legge per la custodia dei figli che non passi attraverso le corti religiose e, infine, il diritto delle donne di trasmettere la nazionalità alla propria discendenza e l’applicazione delle leggi per proteggerle veramente dalle molestie sessuali e dalla violenza sessuale di ogni genere, anche quella domestica. Motivo: se le leggi esistono non vengono applicate, specie in questo periodo di crisi e scarsità di risorse.
Essere donna in Siria
Quello della Siria è una via crucis dei giorni nostri, dove stazione dopo stazione, il popolo siriano diventa vittima di un martirio non scelto. Davanti alla croce della gente c’è lo stabat mater delle tante donne della Siria in piedi e non piegate dalla sofferenza di fratelli, compagni e figli uccisi o scomparsi da anni, in un silenzio assordante.
Dopo quasi dodici anni di guerra, la pandemia e la crisi economica del vicino Libano, che ha inficiato il contesto sociale, la vita delle donne è diventata estremamente difficile, in bilico costante fra emancipazione e violenze. Da un lato le siriane hanno occupato quei vuoti lavorativi e sociali lasciati dagli uomini, andati a riempire le fila degli eserciti, assumendo una maggiore influenza nella sfera pubblica, plasmando, a poco a poco, il futuro della Siria. Il risultato è che le donne siriane nel corso della guerra, sono state costrette ad assumere il ruolo di capofamiglia, in quasi una famiglia su tre. Sono diventate lavoratrici indipendenti, tra le quali si annoverano molte giornaliste locali e attiviste che denunciano con coraggio i crimini commessi dai vari attori del conflitto; ma anche combattenti, come nel caso di tante donne curde che hanno scelto di entrare nella sezione nella Unità di Protezione delle Donne (YPJ), la milizia femminile fondata con l’intento di difendere il territorio dalla galassia di gruppi armati che imperversa in Siria, non ultimo lo Stato Islamico (ISIS). Dall’altro le donne siriane vivono sulla propria pelle le ferite, dirette e indirette, inferte dalla duplice azione congiunta del conflitto e del Covid-19: in particolare subiscono gli effetti delle negative coping strategies, quei comportamenti dannosi di risposta, messi in atto dalle donne stesse e/o dalla comunità della quale fanno parte, per fronteggiare le conseguenze del conflitto. Fra le negative coping strategies ricorrono violenze fisiche e psicologiche, prostituzione, matrimoni forzati, molti minorili, abbandono scolastico, limitazioni alle libertà personali.
Essere donna in Palestina
“Donne libere in Palestina libera”. Questo lo slogan del movimento femminista anticolonialista Ta’lat che a partire dall’autunno del 2019 ha organizzato manifestazioni e proteste in Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme, dentro Israele e nelle comunità della diaspora. Ta’lat è un movimento femminista, politicamente indipendente, nato dal basso e trasversale, che coinvolge tutte le città del mondo arabo in cui vi sia una presenza palestinese. Ta’lat significa “venire fuori”, “uscire”. E se omen nomen, se il nome è un presagio, già l’etimologia del termine si distingue come programmatica, perché Ta’lat ha letteralmente “fatto uscire” dalle loro case e riunito insieme, tante donne palestinesi desiderose di manifestare a favore dei loro diritti.
Il movimento femminista fin da subito ha legato la lotta di liberazione nazionale palestinese a quella delle donne, lanciando il messaggio dirimente di “Free homeland, free women”. Un messaggio che declinato significa: non ci potrà mai essere una Patria libera se le donne resteranno prigioniere. Del patriarcato, della violenza di genere, di un sistema economico e sociale che le vede studiare e laurearsi in percentuali molto maggiori rispetto agli uomini per poi scontarsi con un mondo del lavoro chiuso e respingente.
Secondo l’Istituto Centrale di Statistica della Palestina, nel 2021 la partecipazione delle donne palestinesi alla forza lavoro era del 17% contro il 69% rappresentato dalla controparte maschile. Altrettanto limitata risulta la presenza femminile agli incarichi decisionali rispetto a quella degli uomini, in quanto i dati del 2022 mostrano che le donne costituiscono circa il 25% dei membri del Consiglio Centrale. Come può la Palestina essere libera dalla presenza israeliana, se prima non è capace di liberare sé stessa, rendendo le donne uguali e libere? Il movimento Ta’lat con lo slogan “Free homeland, free women” ha, quindi, perfettamente centrato la problematica dell’essere donna in Palestina. “Vogliamo ridefinire il concetto di liberazione nazionale, prendendo di mira l’élite politica, i partiti, le organizzazioni – racconta Soheir Asaad, attivista politica e femminista, tra le organizzatrici di Tal’at– Non ci può essere liberazione nazionale senza la liberazione delle donne. Non basta essere liberi dal dominio israeliano se la nostra società non libera e giusta per tutti.”
Conclusioni
Libano, Siria, Palestina. Tre Paesi mediorientali, tre differenti contesti caratterizzati da una comune instabilità rispettivamente legata a una crisi politico-economica, a una sanguinosa guerra ancora in corso, a un conflitto a bassa intensità che perdura da diversi decenni. Tre situazioni dove a livello sociale, sono le donne a pagare il prezzo maggiore, in quanto rappresentano il target scelto delle violenze, ma al tempo stesso le donne sono motore attivo nei processi di pacificazione, riconciliazione, denuncia delle violazioni, tutela dei diritti umani. La vera problematica risiede nel fatto che la voce delle donne non è ascoltata né rappresentata ai tavoli delle istituzioni politiche nazionali e internazionali, nonostante due fondamentali risoluzioni dell’ONU – la Risoluzione 1.325 e quella 2.493 – abbiano sancito l’importanza del coinvolgimento delle donne nella risoluzione dei conflitti e nella fase post conflittuale.
Il genere femminile non risulta presente nelle decisioni di alto livello, come nei citati Paesi in conflitto, nella costruzione dei processi di pace: sono gli uomini a preparare e disporre la guerra e sono sempre gli uomini a definire le condizioni della pace.
Ma cosa si intende per pace? La fine delle ostilità in una zona in guerra non costituisce una pace, semmai una “pacificazione”: condizione necessaria per aprire lo spazio al dialogo. La pace è piuttosto da intendersi come riconciliazione, come ricostruzione del tessuto umano e sociale lacerato dalla guerra. E affinché la riconciliazione sia vera ed effettiva, devono essere ascoltate e rappresentate le voci e le istanze di tutti, soprattutto quelle delle donne che costituiscono “l’altra metà del cielo”. Realizzare una pace solo dalla prospettiva maschile porta a una pace monca, perché non completa. È necessario ampliare il concetto di pace attraverso un processo capace di prospettare un futuro sostenibile a lungo termine, che coinvolga la preziosa risorsa di chi non ha combattuto, di chi ha rifiutato l’utilizzo della violenza. In questa prospettiva, che esalta il ruolo della società civile e nella quale si inserisce anche la diplomazia multi-livello, le donne sono un elemento chiave.
Partecipazione e inclusività rappresentano una garanzia non solo per i loro diritti, ma anche per una pace stabile e duratura. Per tutti.