La rivoluzione delle parole in Terra di Canaan
Il muro corre veloce lungo tutta la terra di Canaan. A vederlo dal cielo, dall’alto di un satellite, sembrerebbe quasi una spina dorsale nata per sostenere i millenni di fede e storia che si concentrano in questa terra santa, apparentemente troppo piccola per poterli contenere. Invece quel muro è una ferita di cemento che ferisce una Nazione, che separa due popoli rendendoli ancora, se possibile, più nemici.
Israeliani e palestinesi non sono solamente contrapposti da una guerra persistente, radicata da oltre 70 anni. Sono separati, divisi da reciproci sguardi ammalati d’odio capaci di trasformare l’altro nel nemico. E proprio quest’ultima è l’immagine che israeliani e palestinesi si restituiscono gli uni degli altri, fin da piccoli, a partire dai banchi di scuola, quando si inizia a diventare attori del conflitto in corso. Gli studenti vivono, infatti, sulla propria pelle la retorica che fuoriesce dai libri di storia nei quali la narrativa dell’altro, israeliano o palestinese che sia, vive della contrapposizione, del tema del nemico, dell’incarnazione dell’oppressione, dell’insicurezza e del pericolo dietro ogni angolo.
I bambini crescono con identità incompatibili, mettendo le basi per diventare un giorno gli adulti intolleranti del futuro. A generarle sono le interpretazioni opposte di date, di storie, di eventi, di terre contese dai confini invisibili, tutto messo per iscritto, nero su bianco, nei libri di scuola. Così facendo si distrugge il futuro e si segna ancora di più la distanza tra visioni diverse.
Diversi studi condotti da centri di ricerca indipendenti sull’educazione scolastica in Terra Santa hanno analizzato come vi sia una generale radicalizzazione in entrambe le posizioni, sia nell’ideologia anti-israeliana che anti-palestinese, nei materiali d’insegnamento che delegittimano e demonizzano i due popoli, nutrendo e preparando le menti degli studenti alla lotta armata. Ad esempio se nei testi scolastici palestinesi non sono quasi più presenti le parole “Israele” o “israeliano”, sostituite da “occupazione sionista” e “sionista”, lo stesso avviene nei libri di scuola israeliani: il popolo palestinese viene privato della sua attuale identità politica e culturale fino ad oscurarne la presenza storica e geografica.
Raramente si parla di “Palestina” o “palestinesi”, ma si legge piuttosto di “non ebrei”, “arabi” o di “problema palestinese”. Non nominare il nemico dal quale si deve difendere il proprio Paese, non dargli un volto contribuisce, tra l’altro, ad insinuare un odio latente aggravato dalla sua stessa vaghezza: se il timore è il sentimento che si prova verso un pericolo del quale si conosce la natura e l’entità, la paura è una fobia basata sulla sua totale ignoranza che può più facilmente, per questo, generare atteggiamenti di razzismo, di violenza e sfociare in atti di estremismo.
La paura e, quindi, la violenza possono essere sconfitti solo con un’educazione, capace di creare una cultura dell’incontro. Questo concetto anima da anni l’operato di una piccola ONG nata in Terra Santa, Friendship village, che organizza corsi per insegnanti israeliani e palestinesi con l’obiettivo di fare incontrare le due distinte narrative; di andare oltre la segregazione storica che vede i due popoli arroccati sulle rispettive posizioni; di creare consapevolezza su cosa significhi vivere dall’altra parte del muro. Soprattutto di farsi promotori di un insegnamento più leale e onesto capace di scardinare nelle nuove generazioni preconcetti e razzismi estremamente dannosi.
“Durante una delle giornate del corso, si è rivolta a me un’insegnante palestinese” racconta Gila T. docente israeliana fra le partecipanti al progetto “e mi ha chiesto senza rabbia, come mi sarei sentita se un gruppo di stranieri un giorno avessero invaso la mia terra, reclamando il loro diritto ad abitare lì, insediandosi in Israele. Sembra assurdo ma è stata la prima volta che sono stata costretta a confrontarmi con questo pensiero.”
Per la prima volta tante persone, insegnanti, hanno avuto la possibilità grazie allo spazio di dialogo costruito da Friendship Village, di avere un confronto con un israeliano o un palestinese.
“Non avevo mai parlato con un’israeliana” racconta Lara E. insegnante palestinese “soprattutto non avevo mai parlato con un ebreo del conflitto. Qui ho incontrato qualcuno interessato davvero ad ascoltare la mia voce, a voler capire cosa fosse successo alla mia gente.”
Quanto viene appreso al corso viene poi portato e insegnato dai docenti nelle scuole, nelle aule, per combattere con la cultura e le parole la narrazione di una verità unificata lontana dalla realtà.
Ronit, 50 anni, ebrea di Gerusalemme, insegna a ragazzi appena adolescenti. “Un giorno in classe ho fatto una presentazione Power Point sulla narrativa sionista. Ho descritto le varie fasi dell’Aliyah, dell’immigrazione ebraica nella terra di Israele, poi la divisione territoriale operata dalle nazioni Unite e infine la conseguente lotta che ancora contrappone israeliani e palestinesi. Quando facevo questa lezione in passato, generalmente descrivevo la situazione in maniera molto chiara: noi eravamo i buoni, loro i cattivi. Nero su bianco. Quest’anno ho fatto qualcosa di diverso, ho chiesto ai miei ragazzi: “Perché i palestinesi hanno resistito e continuano a resistere così tanto?”. Allora ho ripreso il Power Point dall’inizio ma raccontandolo dalla parte palestinese, ho raccontato la loro storia. È stato per me fondamentale dare ai ragazzi uno sguardo diverso, diventare responsabile della verità perché tanti altri facciano come me.” Ogni anno Friendship Village forma decine di insegnanti, persone che scelgono di abbandonare dogmi ideologici e odi storici per costruire insieme la pace.
Quella di Friendship village è una vera rivoluzione. Una rivoluzione dal basso, pacifica, che non si combatte con le armi, ma con le parole. L’unica vera rivoluzione possibile capace, come indica l’etimologia latina re-volgere, di cambiare prospettiva sulla realtà delle cose. Di cambiare sguardo sull’altro, abbandonando consapevolmente la visione di nemico per abbracciare quella di fratello.