PAKISTAN: Habiba Bibi e le altre donne hanno imparato cosa sia l’agricoltura sostenibile, in grado di adattarsi ai cambiamenti climatici.
di Beppe Pedron, Caritas Italiana
Habiba Bibi scruta il terreno con le zolle smosse dal duro arare del giorno precedente. Il loro è un piccolo appezzamento.
Sono bastate poche ore con il bue chiesto in prestito, in cambio di una parte del raccolto, alla famiglia piú abbiente del piccolo villaggio, per dissodare il terreno reso duro dalla siccitá ed ora cosi assetato di pioggia.
Habiba solleva sul capo il lembo logoro della sari di cotone, quella di “buon comando” che si usa nel campo, niente a che vedere con quella verde costellata di ricami color oro e da abbinare alla collana del matrimonio. Habiba attende con trepidazione di indossarla la prossima settimana, Leela, la figlia di diciassette anni, si sposerà. Ha trovato un buon ragazzo, un contadino anche lui, serio e timorato di Dio. Se ci fosse Akdar, suo marito, ne sarebbe così orgoglioso, ma Akdar è partito per lo janna, il paradiso, già da tre anni.
La vita passata chino sul campo, a mischiare la terra con quella polvere verde venduta direttamente al villaggio dagli uomini in moto. Ogni anno, puntuali più del monsone, venivano a portare sacchi di polveri da spargere, dicevano loro, a piene mani sulla terra, per avere raccolti miracolosi.
Per anni, dopo il loro passaggio, Akdar e molti altri contadini della zona rientravano dal campo con gli occhi arrossati, la gola secca, una tosse insistente e la pelle come quella delle lucertole stese al sole sulle pietre della vecchia Moschea distrutta dai talebani.
Mese dopo mese, semina dopo raccolto e raccolto dopo semina, la tosse è divenuta compagna costante di Akdar, fino alla morte che è venuta a prenderselo tra eccessi di catarro e sangue.
Il Pakistan è il sesto paese più popoloso al mondo e l’agricoltura è fondamentale per il suo sviluppo economico e per il sostentamento della popolazione. Questa contribuisce al 25% del PIL del Paese ed il 44% della forza lavoro dell’intera nazione è impiegata in questo settore, vitale anche per l’esportazione.
Ciò nonostante la sicurezza alimentare in Pakistan è ancora lontana dall’essere raggiunta a causa anche della povertà diffusa e delle ricorrenti alluvioni che devastano terreni agricoli e aumentano, in una spirale insidiosa, la povertà stessa. Solitamente a soffrire maggiormente di questo impoverimento e della iniqua distribuzione delle ricchezze sono le donne e i minori.
Secondo il World Food Program quasi il 45% dei bambini al di sotto dei cinque anni di età è malnutrito e il Paese soffre la fame in modo “grave”, come indicato dall’essere posizionato al 88esimo posto su un totale di 107 nazioni, nella scala del GHI, il Global Hunger Index.[1]
In termini assoluti ciò significa che circa 40 milioni di pakistani non possono avere una quantità sufficiente o minima di cibo e rischiano la vita. Ogni anno il pericolo aumenta, e sebbene si vedano miglioramenti tendenziali rispetto all’accesso al cibo, questo cresce del 2.4% anche a causa della pressione demografica.
Habiba ha preso sulle proprie spalle la gestione dei campi che un tempo erano curati da Akdar e si è unita ad altre donne che aiutano i mariti nei campi, essendo come lei rimaste sole a dover sostenere la famiglia. Gestiscono con tenacia l’unica fonte di reddito e di cibo che questi villaggi dispersi possono offrire.
Habiba ricorda con nostalgia le lunghe giornate con le sorelle, nella fragile casa di mattoni e lamiera, ad osservare la pioggia cadere, potente, incessante, regolare e fonte di vita. Da tempo, però l’arrivo della pioggia non porta solo la speranza delle piantine di grano, che si fanno strada sotto la terra, ma anche la paura degli eccessi dell’acqua che cade. Ora le precipitazioni sono più violente e abbondanti, durano meno e portano molta più acqua di prima e, ugualmente, i mesi estivi sono torridi, senza vento e apparentemente anche senza fine.
Habiba, Elizabeth, Bushra e le altre donne contadine della zona hanno deciso, aiutate e supportate anche dai mariti o dagli altri contadini, di non mescolare più la terra con le polveri verdi portate dalla città. Hanno capito che la morte arrivava con la polvere, che i raccolti erano apparentemente più belli, ma poi meno sani e che, di anno in anno, sempre più rupie dovevano essere spese per comperare le polveri colorate.
Il Pakistan è il quinto Paese[2] tra i dieci più colpiti da eventi climatici dannosi, dal 1999 al 2018, e causati dagli effetti del cambiamento climatico e secondo l’Indice di Vulnerabilità Climatica si trova al quinto posto in termini di vulnerabilità ai cambiamenti climatici.
In una nazione già affamata e in difficoltà nel nutrire tutti i propri cittadini, i cambiamenti del clima generano insicurezza, perdita di terreno coltivabile e, di conseguenza, ancora fame.
E la fame, oltre a malnutrizione, sviluppo fisico e mentale squilibrato e morte, porta anche a proteste civili, lotta per le risorse ed insicurezza sociale. Ancora una volta il Pakistan si trova nell’area dei Paesi maggiormente a rischio di imboccare la strada dei disordini civili a causa della povertà e della fame.[3]
Il pianificare una agricoltura sostenibile, che distribuisca più equamente le risorse, è non solo una necessita, peraltro ben nota ai governi, ma anche un intervento alimentare, nutrizionale, sanitario e di costruzione della pace.
Da qualche anno Caritas Pakistan è impegnata in progetti che mirano a praticare un’agricoltura per i piccoli, i poveri contadini dei villaggi isolati, non inseriti nei meccanismi economici dei latifondisti, sostenibile e che usi la minor quantità possibile di sostanze chimiche, ma che sappia anche inserirsi nel contesto dei cambiamenti climatici che tanto sfidano le abitudini e le pratiche agricole.
L’emergenza del COVID – 19 ha poi inasprito le difficoltà dei contadini: molti mercati sono stati chiusi a causa del divieto di assembramento e delle pessime condizioni igieniche, il divieto di spostamento ha di fatto impedito anche l’approvvigionamento di sementi e attrezzi agricoli lasciando così milioni di persone sole e senza cibo sufficiente.
Gli interventi governativi, pur essendo stati vari e importanti in termini economici, non sono riusciti a rispondere alle implicazioni complesse della marginalità e della sicurezza alimentare, alimentate dai cambiamenti climatici, dall’insicurezza politica alle quali si aggiunge prepotentemente, ora, anche quella sanitaria.[4]
Habiba si sente forte, sa che, con le compagne del gruppo di donne contadine coordinato da un operatore della Caritas, può contare su nuove tecniche semplici e pur così importanti, sa che le piogge torrenziali fanno paura tuttavia possono essere in un qualche modo addomesticate.
E poi, Habiba, adesso è direttrice di banca. Grazie alla sua innata dote di leader e alla collaborazione dei villaggi vicini, ha istituito la banca dei semi della zona: raccolgono, ciascuno dal proprio campo, i semi del grano migliore e li scambiano.
Quest’anno hanno raccolto i primi 1,800 Kg di grano senza dipendere – per la prima volta nella storia del villaggio – dalle aziende che si arrampicano fin quassù per vendere semi costosissimi, selezionati e sterili.
Dai 1,800 chili, Habiba ha re-investito in banca 100 chili di semi, in quello che è a tutti gli effetti un fondo di rotazione, non in denaro, ma in semi.
Grazie a diversi incontri di formazione, le donne del villaggio ma anche quelle di molte altre vallate, ricevono indicazioni, idee, consigli su come poter resistere attivamente ai cambiamenti del clima, valorizzando il proprio duro lavoro e le tradizioni locali.
Habiba è sfolgorante nella sua sari verde e dorata, fiera, con la schiena dritta e forte accompagna Leela in questo giorno di festa.
Habiba la contadina, Habiba la vedova, la mamma. Habiba che ha imparato, che sa.
Habiba, la direttrice di banca.
[1] https://www.globalhungerindex.org/pakistan.html
[2] https://germanwatch.org/sites/germanwatch.org/files/20-2 01e%20Global%20Climate%20Risk%20Index%202020_10.pdf
[3] https://www.maplecroft.com/insights/analysis/south-asia-at-highest-risk-of-civil-unrest-as-food-insecurity-bites/